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UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA
AN ANGEL AT MY TABLE
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 15 settembre 1991
 
di Jane Campion, con Kerry Fox, Alexia Keogh, Karen Fergusson (Nuova Zelanda - Australia, 1990)
"Due anni dopo aver sconvolto molte delle buone maniere cinematografiche con SWEETIE, la trentacinquenne neozelandese Jane Campion ritorna (e vince l'argento a Venezia un anno fa) in questa biografia della più celebre scrittrice di quel paese, Janet Frame. Celebre non soltanto per le sue qualità letterarie, ma per il suo arduo, spesso tragico itinerario esistenziale: che la conduce tra l'altro, negli anni Quaranta e dopo otto d'internamento in ospedali psichiatrici per una schizofrenia rivelatasi in definitiva inesistente (sic), ad un passo della lobotomia.

È un ritorno particolare, quello di Jane Campion. Un po' perché questo suo film di due ore e mezzo era destinato a tre episodi televisivi, e girato in quell'ottica. Ed un po' perché il carattere abnorme di SWEETIE rendeva difficile una continuazione del discorso. Succede allora con UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA che se le conseguenze più ovvie si avverano (il film ha un ritmo a volte allentato, che denuncia le sue tre ore originali; una progressione drammatica segnata - specie nel terzo degli episodi - da quel sospetto di didascalismo, di prevedibilità che sembra condizionare inesorabilmente i prodotti destinati alle grandi masse televisive) anche quelle più difficili si affermano.

Ed è quello che importa: poiché l'ispirazione, la poetica e l'estetica della Campion si confermano essere tra le rivelazioni degli ultimi anni.

Certo, SWEETIE era un film frantumato dal suo interno, esploso nel suo nucleo, che era poi quello fragile, prezioso, traumatizzante della famiglia; quanto di meglio, insomma, è riuscita ad inventare finora l'umanità in fatto di sopravvivenza. Dal centro di questo nucleo, tra i difficili confini che dividono l'immaginazione dalla follia, l'eccentricità da quella che chiamiamo normalità, i personaggi di SWEETIE, mostri innocenti o degenerati più o meno consapevoli, aspiravano ad una loro salvezza, ad un itinerario commovente che li potesse salvare dalla loro solitudine.

Ancorandosi ora al vissuto di una biografia (anche se identificandosi senza dubbio in molte particolarità della scrittrice) UN ANGELO ALLA MIA TAVOLA assume invece molti aspetti di quella "normalità" del raccontare che in parte contraddice l'anticonformismo della regista. Ma la scrittura del film (come non notarlo in un film che racconta di come l'arte dello scrivere possa essere l'unica consolatrice dapprima, e la sola esaltatrice infine, in una vita segnata dalle avversità?), questa molla segreta e rivelatrice di ogni intimità cinematografica, continua ad affermarsi generosamente.

Dalle prime immagini del film (una ragazzina sgraziata con un'impossibile zazzera rossa, al tempo stesso determinata ed indifesa, che affronta di petto la cinepresa avvicinandosi dall'orizzonte su una strada di campagna, prima di un voltafaccia che sembra anticiparne la timidezza, l'esclusione, la diversità, la solitudine) è un modo di far cinema del tutto speciale che ci viene sbattuto in faccia: una riproduzione della realtà bruta - anche nei momenti di tenerezza, anche in quelli del "non detto" che abbondano in questo film dominato dall'ellissi - quasi naturalistica. Ma che immediatamente viene contraddetta da un uso irreale dei vari mezzi: i colori ipersaturi del cielo e del verde neozelandese, i suoni amplificati a dismisura, la scelta estremamente tipata dei personaggi, le riprese con obiettivi dalle focali estreme, teleobiettivi o grandangoli, spediscono tutta quella realtà - a volte gioiosa, quasi sempre drammatica - nel mondo del fantastico.

È come se l'autore volesse destabilizzarci: un'immagine dalla verità brutale, documentarista, come in certe riproduzione dei maestri della fotografia sociale, subito contraddetta dalle colorazioni favolistiche, dalla sfumature stranianti. Inserimento sapiente negli ambenti e arte dell'inquadratura: ogni piano del cinema della Campion è saturo d'informazioni, e mai di decorazioni fine a sé stesse. C'è la stessa passione di David Lynch per gli estremi (la Bella e la Bestia, come confessa l'autrice), ma anche il culto della deformazione in pittura (Bacon?).

In un mondo di effetti gratuiti o di calcoli prudenti il cinema di Jane Campion si afferma per la sua volontà di imprimersi senza mezzi termini nella memoria degli osservatori. Ma la forza imperiosa delle sue decisioni formali non è mai compiaciuta, casuale o leziosa: in quel suo modo di scrutare ogni piega della pelle dei suoi personaggi, di andarli a stanare dai più reconditi dei loro rifugi spirituali, c'è una volontà commovente e sconvolgente di spiegarne l'inspiegabile, di scavarne il mistero. E, soprattutto, di condividerne la solitudine."


   Il film in Internet (Google)

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